Leon21 Admin
Messaggi : 1103 Data d'iscrizione : 05.05.13 Età : 64 Località : Vetralla
| Titolo: Marocco targato EA Sab Nov 26, 2016 12:07 pm | |
| Dopo le precedenti esperienze desertiche in Tunisia non poteva mancare il Marocco, la meta intrisa di leggende per chi come me ama il fuoristrada e, in modo speciale, l’enduro. Ci è voluto tanto tempo per preparare la trasferta di 4 moto (Io con un DR 800 big - Presidente con DR 650 - Davide con Supertenerè 750- Alberto Ktm 690 - Massimo DRZ 400) e 1 veicolo 4x4 di assistenza (Jacopo alla guida di un Toyota FourRunner) anche perché nessuno, tranne Massimo, era mai stato in Marocco e le uniche conoscenze del territorio erano le tracce ricavate pazientemente su Google Earth. Con tanto entusiasmo e una modica quantità di azzardo arriviamo, dopo oltre 60 ore di traghetto ed in tarda serata, al nuovo porto di Tanger Med. E’ curioso come l’Africa di faccia sentire il suo fascino anche se il buio copre tutto quello che è intorno. Potremmo essere in una qualsiasi parte del mondo, invece no: siamo inconfondibilmente nel Continente Nero. Sarà il silenzio che ci avvolge appena lasciate le lungaggini doganali, saranno gli odori che ci seguiranno per tutta la nostra permanenza, ma non c’è alcun dubbio nell’essere coscienti di essere parte dell’Africa e di essere in procinto di vivere un’altra bella avventura. Con le indicazioni di un gentile indigeno conosciuto in traghetto, troviamo posto in un appartamento poco distante dal porto per poter trascorrere le poche ore di buio che ci separano dall’inizio del viaggio, anche per evitare di percorrere di notte strade che conosciamo solo sulla carta.
Assaporiamo subito gli usi locali venendo svegliati all’alba dal richiamo alla preghiera del muezzin che, dall’altoparlante della vicina moschea, intona una nenia alla quale faremo abitudine nei giorni seguenti. Sveglia e subito colazione locale a base di the alla menta, uova al tegame e altre vivande che mai avremmo assaporato in patria a quell’ora, quindi si sale in sella per il via alla nuova avventura. Trasferimento stradale lungo la costa est-mediterranea del Marocco che ci porta al meraviglioso paese di Chefchaouen, la città celeste, nel senso che tutto intorno è dipinto con il colore celeste alternato al bianco. Posto veramente incantato anche se praticamente un continuo bazar dove si vende qualsiasi cosa di turistico e dove bisogna avere l’occhio lungo per fare dei veri affari. Il clima è magnifico e la temperatura quella giusta per viaggiare senza particolari patimenti. Salutiamo un amico italiano che si è trasferito in loco da circa 30 anni e che ci dà alcuni consigli sul prosieguo del tragitto, cosa che naturalmente non seguiremo riprendendo una strada che a noi sembrava migliore e più corta per arrivare alla meta successiva di Fes.
La via che sembrava molto comoda all’inizio, improvvisamente inizia a salire di quota e a diventare sempre meno adatta ad un trasferimento veloce come intenzione originaria. Pian piano l’asfalto scompare e ci troviamo a percorrere strade dissestate in mezzo al nulla mentre il sole inizia a calare dando spazio al buio della sera con conseguente diminuzione della media di percorrenza.
Infatti arriviamo a Fes in ora piuttosto tarda, ma riusciamo comunque a trovare un ricovero per noi e i nostri mezzi. Un bel riad in piena Medina ci accoglie stanchi e impolverati, ma riusciamo a riprendere forze e aspetto decente in poco tempo dopo una bella e calda doccia ristoratrice. Al mattino seguente visitiamo velocemente la Medina di Fes (parte vecchia della città circondata dalle mura) e le concerie che la rendono famosa. Inutile dire che tutta la lavorazione avviene in precarie condizioni di sicurezza, come del resto quasi tutte le attività artigiane marocchine. In particolare vediamo che le pelli vengono conciate utilizzando una mistura di acqua e guano agitata a mani nude dai conciatori. Da noi sarebbe impensabile una cosa simile. Un po’ in ritardo sulla tabella di marcia ci mettiamo in viaggio per Missour.
l viaggio verso la meta del desiderio enduristico chiamata Merzouga continua in direzione di Missour con un tratto stradale che taglia in due sconfinati altipiani dove la coltivazione delle cipolle fa da padrona. Lo facciamo attraversando la parte più bassa dell’Atlante (arriveremo comunque a 1800 m. di altitudine). Durante lo svalicamento veniamo sorpresi dalla pioggia e da un brusco calo della temperatura ai quali rispondiamo con le tute antipioggia prudentemente stipate nel 4×4. Come al solito arriviamo a Missour col buio dove, dopo faticosa ricerca, riusciamo a prendere alloggio in un Bed and Breakfast molto originale gestito da una giovane coppia del luogo che ci ha ospitati con calore e gentilezza molto apprezzati. La signora, inoltre, si è prodigata in cucina per oltre due ore per prepararci alcuni piatti tipici ed un couscous veramente saporito e gradito da tutti.
La successiva tappa di avvicinamento alle dune prevede il transito per Talsint e Boudenib; ancora un tragitto, in parte stradale, che vede il gruppo seguire in lontananza un violento temporale che, fortunatamente, non ci raggiungerà mai se non per un breve tratto.
Le tappe si susseguono una dietro l’altra e finalmente arriva il momento del full-offroad. A poca distanza dal centro di Boudenib troviamo la traccia memorizzata nel GPS ma al posto del sentiero ci troviamo davanti un lunghissimo rettilineo di terra battuta pronto per essere asfaltato. Poco male perché lo percorriamo in breve tempo recuperando tempo sulla tabella di marcia. Seguiamo rigorosamente la traccia fino a che una sbarra ed alcuni frontalieri non ci impongono, con determinata cortesia, di tornare indietro. Ci spiegano che in conseguenza della situazione geopolitica in Algeria il Governo marocchino ha dispiegato delle forze militari al confine e che quello è il limite cui i civili, soprattutto se stranieri, possono avvicinarsi.
Cerchiamo e troviamo un facile by-pass che, dopo alcune decine di chilometri, ci conduce ad un altro check point. Stessa situazione, foto di rito con i frontalieri e medesima ricerca di un by pass. Questa volta la cosa diventa più ostica perché decidiamo di prendere una via che non consideri più la traccia presente sui GPS, navigando a vista. Incontriamo un moderno beduino a bordo di un motociclo di origine cinese (mezzo largamente usato in quei posti), con gomme stradali e con battistrada al limite. Gli chiediamo alcune informazioni e lui ci fa cenno di seguirlo. Ci farà strada per moltissimi chilometri lungo una fettuccia sterrata disseminata di sassi mettendo, in alcuni casi, alla berlina i grossi dual del nostro gruppo.
La mattina seguente finalmente riusciamo a vedere di persona quello che abbiamo sempre sognato sfogliando le riviste di settore: la grande duna di Merzouga è li davanti a noi con la sua sabbia rossa e le sue creste che sembrano lame taglienti. Finalmente il deserto e la sabbia!
Io, abituato alla guida di moto racing, con il grosso DR Big 800 da 200 kg faccio molta fatica almeno sino a che, rompendo gli indugi e la troppa prudenza, inizio a dare il gas che serve per farla galleggiare. Con il proprietario del riad quale guida facciamo il giro dell’Erg, visitiamo alcune miniere quindi una località nota per essere foriera di fossili. In effetti ne troviamo qualcuno mentre ci apprestiamo ad ammirare scenari che nessuno di noi avrebbe mai pensato di immaginare. Passiamo attraverso villaggi abbandonati e minuscoli insediamenti tendati in uno dei quali ci fermiamo per una sosta sotto una tenda sorseggiando l’immancabile the alla menta offerto dalla padrona “di casa”.
Al ritorno l’amico alla guida di un mastodontico Supertenerè pensa bene di affrontare una duna nel tentativo di saltarla e senza vedere aldilà della stessa. Dietro cìera un’altra duna più piccola che non riusciva a saltare impattandoci con la ruota posteriore e finendo sbalzato in aria per ricadere sulla moto che nel frattempo si era adagiata in terra.
Fortuna vuole che tutto si concluda solo con un grande spavento e pochi riparabili danni. Si dice che la fortuna è cieca, però purtroppo la sfortuna ci vede benissimo e ci presenta subito il conto: Mohamed, il proprietario del riad, ci chiede la cortesia di portargli alcune canne di bambù al suo bivacco all’interno dell’Erg con il nostro 4×4 dato che lui è sprovvisto di auto. Accettiamo di buon grado e al ritorno dal campo tendato nel deserto la vettura rimane con le marce ridotte inserite senza possibilità di poterle rimuovere. Dopo un inutile tentativo di riparazione sul posto effettuato da un meccanico chiamato da Mohamed e durato fino a tarda serata, il giorno seguente decidiamo di tornare a Erfoud dove Otman, un contatto del luogo, ci aveva assicurato di poterci dare una mano. I meccanici del posto riescono a risolvere il problema anche se occorrono un paio di giorni. Li trascorriamo in un riad di proprietà dell’amico Otman. Un riad bellissimo vicino ad una palmeria e ad una kasbah, di recente costruzione ed arredato con gusto e originalità dove avremo modo di trascorrere quei giorni in perfetto relax. Finalmente abbiamo tempo a disposizione per vivere in pieno l’atmosfera del Marocco durante lunghe passeggiate nel centro di Erfoud, all’interno del suo pittoresco mercato dove facciamo alcuni acquisti.
Alcune indiscrezioni ricevute online da amici viaggiatori che ci precedono sulla tabella di marcia, ci mettono in guardia su una zona poco praticabile a causa dell’insidioso fesh fesh (sabbia finissima come farina che tende a far sprofondare i veicoli in transito). Subito mano al computer per rivedere la traccia del giorno successivo, ovvero la famosa pista che dalla zona di Merzouga ci avrebbe condotto a Zagora. Riusciamo a bypassare la zona incriminata senza però tagliare fuori alcuni paesi che valeva a pena visitare. Appena fuori da Erfoud troviamo la pista che avevamo tracciato: attraversiamo villaggi con le caratteristiche case di fango (muri eretti con un impasto di fango e paglia essiccata) e moltissimi Ksar (così si chiamano le oasi) formati da immense coltivazioni a palmeti per la produzione dei gustosissimi datteri, frutto che rappresenta una delle maggiori entrate della zona.
Affrontiamo gli sterrati in scioltezza aiutati dalla mancanza di polvere, spenta dalla pioggia caduta durante la notte. Come al solito le strade dei villaggi si animano al nostro passaggio e i bambini ci fanno ampi gesti di saluto che noi ricambiamo con piacere. In breve lasciamo i luoghi abitati e ci si aprono davanti spazi sconfinati dove l’orizzonte pare scomparire e dove la traccia diventa un lungo e infinito rettilineo. Ci addentriamo in diversi Chott, ovvero delle depressioni immense che una volta erano dei laghi le cui acque sono sprofondate. Le piogge dei giorni precedenti hanno richiamato in superficie parte dell’acqua del sottosuolo, formando improvvisi tratti umidi nei quali si rischia fortemente di rimanere imprigionati. Qualcuno, per attraversarli dà potenza alla relativa moto cercando di rimanere in superficie, altri navigano a vista cercando di evitare le zone umide che si riconoscono dal colore più scuro.
Il sole inizia a far sentire la sua presenza e in uno degli Chott attraversati riusciamo a vedere il fenomeno del miraggio: in lontananza quella che in realtà è solo una superficie sabbiosa, sembra trasformarsi in una altrettanto immensa distesa d’acqua. E’ la prima volta che mi capita di assistere al fenomeno, nonostante abbia fatto il deserto più volte, quindi non posso fare altro che fermarmi, rapito, qualche minuto a contemplare l’evento.
Dopo aver attraversato alcuni piccoli valichi di montagna arriviamo a Zagora all’imbrunire. Sosta in un bar per il solito ristoratore the alla menta e per cercare un albergo per la notte approfittando del wifi free. Anche questa volta riusciamo a trovare un bel rifugio in un auberge poco distante dal centro di Zagora. Decidiamo di andare a visitare un altro deserto più a sud, ovvero l’Erg Chigaga, luogo che Massimo, il veterano del gruppo, ci indica come impossibile non vedere.
Direttamente in albergo prenotiamo il pernotto presso un bivacco nel deserto per la notte successiva e fissiamo un appuntamento con il gestore del bivacco per il pomeriggio. Partiamo da Zagora non prima di aver visitato una parte della locale palmerie, un immenso parco denso di palme e piante tropicali.
Ci attende un lungo trasferimento. Prima tappa Tamegroute, il villaggio noto per le sue ceramiche di colore verde e la kasbah quasi interamente al coperto. Facciamo un rapido giro all’interno del villaggio e una visita in una delle tante fornaci dove assistiamo al ciclo di produzione dei manufatti in terracotta.
Il tempo stringe e occorre rimetterci in cammino. Man mano che procediamo la strada si trasforma dalla dura pietraia alla più morbida, ma insidiosa sabbia. Procediamo spediti almeno fino a che, saltando un incrocio, ci troviamo fuori traccia lungo uno sterrato pieno di sassi che mette a dura prova braccia e sospensioni. Dopo alcuni chilometri ci accorgiamo dell’errore e torniamo indietro, ma il fato è sempre in agguato: una pietra impattata con più irruenza fa afflosciare la camera d’aria posteriore della mia Dr Big. Subito provvediamo a smontare la ruota e a sostituire la camera d’aria, ma perdiamo il tempo che eravamo riusciti a guadagnare. Ritroviamo la traccia giusta, ma sorprendendoci il buio non riusciamo a trovare il luogo dell’appuntamento con il gestore del bivacco. Per fortuna riusciamo a trovare, invece, una posizione dove è possibile effettuare una telefonata con il cellulare e a rintracciare il nostro amico che, in pochi minuti, ci viene a recuperare e a condurre al bivacco. Quella che sembrava una brutta situazione si è trasformata in una bella avventura facendoci provare il gusto di guidare sulle dune alla sola luce dei fari. Il bivacco ci attende con le sue tende berbere a formare un circolo, con la tenda più grande, quella della ospitalità a formare la cerniera del cerchio. La notte ci avvolge tutta intorno, la luna rischiara alcune dune facendo risaltare il rosso della sabbia, mentre la temperatura scende rapidamente. Ci riscaldiamo sorseggiando the intorno ad un grande fuoco al centro del bivacco. La cena, rigorosamente a base di prodotti tipici, che per noi ormai sono diventati familiari, ci porta a trascorrere la serata in completo relax. Il riposo all’interno della tenda berbera non fa che rendere il nostro viaggio ancora più memorabile. Svegliarsi, aprire il telo della tenda e trovarsi immersi nel nulla con vista su dune alte più di cento metri ha il suo indiscutibile fascino e nessuno perde l’occasione di lasciare una temporanea traccia della moto sui morbidi declivi sabbiosi, quindi colazione di nuovo in marcia.
" />
Questa volta la barra la direzioniamo verso nord perché da quel momento inizia la risalita verso Tangeri.
Questa volta la barra la direzioniamo verso nord perché da quel momento inizia la risalita verso Tangeri, da dove ci separano ancora tanti e tanti chilometri. Lasciamo il deserto alle nostre spalle con grande dispiacere, già sapendo che quei posti accompagneranno la nostra nostalgia per tanto tempo. Pian piano la sabbia lascia il posto a lunghe e desolate sterrate che ci conducono giusto per l’ora di pranzo nel centro di Foum Zguid.
Rabbocco serbatoi e pranzo a base di carne alla griglia ci permettono di riprendere le necessarie forze per il prosieguo del percorso. Da li in poi la strada si fa meno impegnativa potendo percorrere gran parte del tracciato su asfalto. Arriviamo, questa volta nel primo pomeriggio e ancora con parecchie ore di luce a disposizione, a Ouarzazate, la Cinecittà marocchina. Subito alle porte della città notiamo gli ingressi di alcuni studios cinematografici, così come ci appaiono anche sparsi qua e la lungo la main street che conduce al centro. Subito notiamo che, nonostante sia un paese sito all’interno del Marocco, lo stile di vita è ben superiore a quello incontrato sino a poche decine di chilometri prima. Belle strade, palazzine in ordine, viali larghi e spaziosi accolgono numerosi esercizi commerciali e alberghi di spessore. Riusciamo a trovare alloggio, anche a buon prezzo, in un bellissimo albergo stile occidentale, poco distante dal centro (dopo tanti giorni ci concediamo un piccolo lusso). Dopo la doccia e un piccolo momento di relax abbiamo, finalmente, il tempo di sederci tranquilli a bordo piscina a sorseggiare una birra fresca. Come per l’hotel, anche per la cena ci prendiamo un altro lusso, scegliendo un bel ristorante gestito da europei. Il piatto di pasta dopo tanto tempo diventa quasi un obbligo al quale personalmente obbedisco.
La mattina seguente ci trova belli pimpanti per una tappa che, sulla carta, prometteva grandi panorami, ma anche un bel tour de force: le famose Gole del Dades ci attendevano. Ci arriviamo dopo un trasferimento su asfalto piuttosto lungo il quale porta ad un interminabile serpentone che corre lungo l’omonimo fiume, fino a giungere al punto più stretto del canyon: un tratto dove le montagne restringono la sede stradale a tal punto da rendere difficile il passaggio di due veicoli contemporaneamente. Da quel punto in poi la strada inizia a salire in un susseguirsi di tornanti stretti e ripidi. Proprio quel tratto di strada, visto dal punto più alto prende le sembianze proprio del serpente cui ho accennato, diventando uno dei tratti di strada più fotografato del Marocco, cosa che anche noi facciamo immortalando il paesaggio.
Proseguendo la sede stradale si fa meno comoda fino a far sparire del tutto l’asfalto nel momento in cui iniziamo l’ascesa del Grande Atlante, questa volta da attraversare nella parte dove esistono le vette più alte. Villaggi immersi nel nulla e distanti parecchi chilometri uno dall’altro passano veloci sotto i nostri occhi, mentre incrociamo diverse adolescenti che rientrano a casa a dorso di muli o asini carichi di erbe o legna. La vita da queste parti non deve essere proprio agevole, almeno secondo i nostri canoni. Comunque ci sorridono e ci salutano al passaggio.
La strada ormai è un continuo sterrato che si inerpica mano mano e il buon fondo, comunque, ci permette di tenere una buona media sia per le moto che per il 4x4 che ci segue passo passo. Da lontano vediamo le cime innevate che man mano si avvicinano mentre sul GPS vediamo l’altitudine aumentare ad ogni tornante. Quando pensi che dopo l’ennesima curva possa iniziare la discesa, subito ti accorgi che c’è un altro passo da svalicare. L’aria inizia a farsi più pungente, ma l’impegno e la concentrazione alla guida fa passare tutto in secondo piano. Arriviamo quasi fino a quota 3000 m. di altezza e, finalmente, iniziamo la scesa verso il piano, verso il villaggio di Agoudal, sito a quota 2400 m. di altitudine. Maciniamo il lungo tratto in discesa tutto d’un fiato e arriviamo al villaggio abbastanza provati. Li abbiamo visto il Marocco che non ti aspetti: oltre al panorama completamente diverso dal deserto e dalle zone costiere, anche le persone sembrano essere di diversa etnia. Il modo di vestire e i tratti somatici sembrano appartenere più agli abitanti delle Ande che a dei magrebini. Un riad alle porte di Agoudal ci ospita per la cena, consumata attorno ad un termocamino, e per la notte. Camera senza riscaldamento e nottata che ha visto scendere la temperatura a meno 8° ci ha consigliato di prendere i sacchi a pelo dai gavoni nella macchina e di dormire in modalità “baco da seta”, praticamente tutti integralmente infilati nei sacchi a pelo. La mattina ci accoglie una bella giornata di sole che attenua il freddo della notte. Iniziamo le operazioni di partenza, ma il mio DR Big non ne vuole sapere di avviare il motore. I tanti tentativi risultano vani fino a che il motore si blocca definitivamente. L’iniziale sbandamento sul da fare (dal traghetto ci dividevano ancora 5-600 km.) veniva sconfitto dall’innata fantasia e adattamento alle avversità degli enduristi. Troviamo un fabbro al quale facciamo costruire un congegno che, una volta fissato al posto del gancio di traino, potesse permettere l’aggancio della moto.
Capito il disegno speditivo l’artigiano di Agoudal lo costruiva alla perfezione e, grazie all’illuminante intuizione enduristica, potevamo riprendere il viaggio, con la soddisfazione di Jacopo che finalmente poteva avere un compagno di viaggio in auto. Da Agoudal decidiamo di percorrere, per la maggio parte, strada asfaltata per non rischiare ulteriori ritardi. Nonostante l’impegno di vie piuttosto comode, il paesaggio ci riempie comunque la vista specie quando tagliamo perpendicolarmente un bosco di cedri, zona che rappresenta l’addio alle pendenze del Grande Atlante. Giungiamo a Meknes all’imbrunire e transitando in un largo viale notiamo una miriade di baracchini da dove si leva un invitante fumo di griglia. Sosta obbligatoria vista l’ora prima di prendere alloggio in un bell’albergo della cittadina di Meknes che, il giorno successivo, ci vede nella veste di turisti con una bella passeggiata all’interno della locale Medina, prima di intraprendere il viaggio in direzione di Chefchaouen, ovvero da dove tutto era iniziato. Raggiungiamo la città celeste in poche ore di viaggio, prendiamo alloggio in accogliente ostello e poi di nuovo turismo fotografico in visita ai luoghi che non avevamo potuto vedere in precedenza. Decidiamo di fermarci a Chefchaouen anche il giorno successivo, visto che il porto di Tanger Med poteva essere raggiunto in poche ore e che il fascino della città celeste vale la pena di essere approfondito, soprattutto nelle ore serali quando i colori delle strette vie ti avvolgono in un’atmosfera misteriosa con le sue piccole botteghe artigiane che riempiono ogni spazio della città. Un’ottima occasione, che non ci lasciamo sfuggire, per assaporare con più attenzione gli odori delle spezie e dei caratteristici sali da bagno che vengono venduti in ogni dove, nonché per scoprire le abitudini e le tradizioni quotidiane dei locali. In pratica ciò che fa la differenza tra il turista, cioè colui che ingurgita il tutto velocemente e senza assaporare nulla in modo bulimico, ed il viaggiatore ossia quello che assapora tutto come il sommelier gusta il vino.
Lasciamo Chefchaouen con nostalgia, anche se il desiderio di tornare a casa ci fa percorrere in distensione gli ultimi chilometri che ci separano dall’imbarco dove arriviamo in comodo anticipo, utile per poter svolgere tutte le pratiche doganali in completa tranquillità. Il viaggio in traghetto ci riserva l’ultima sorpresa: un mare molto agitato ci scombussola la notte e parte del giorno successivo, costringendoci ad un digiuno forzato e a prendere dosi massicce di apposito farmaco. Giungiamo in orario al porto di Savona con il problema di dover portare la moto in avaria almeno a Genova dove avevamo lasciato i carrelli e poi sino a casa in provincia di Viterbo. Ci viene in aiuto Hashim, un giovane che ha appena avviato attività di importazione di merce in Marocco il quale, a bordo del suo furgone completamente vuoto, è diretto a Frosinone. Si rende disponibile a portare me e la moto fino a Genova, ma grazie alla confidenza nata nel breve tragitto gli farò compagnia fino a Tarquinia, ringraziandolo e dividendo con lui parte delle spese facendogli, inoltre, trascorrere più agevolmente le ore di viaggio notturne. Finisce qui la bella avventura vissuta con intensità e passione che lascerà un altro indelebile ricordo. Cosa mi rimane del viaggio raid? Per prima cosa i colori: il rosso in tutte le sue sfumature. Lo vedi dappertutto dalle dune alle montagne arse dal sole, dalle mura delle abitazioni dei villaggi alle bandiere che sventolano sugli edifici pubblici e lungo le arterie principali delle cittadine attraversate. Come dimenticare i ragazzini di tutte le età che al nostro passaggio salutavano con un cenno della mano o allungavano il palmo per “battere il cinque”? E le segnalazioni di pericolo lungo le piste formate da sassi messi uno sull’altro a bordo pista? Quanti azzardi ci hanno permesso di fuggire. Gli odori delle spezie che condiscono ogni pietanza ancora li sento con piacere (a dire il vero ad esclusione del cumino che dopo due giorni chiedevamo espressamente di non mettere più). Infine le molte contraddizioni di un paese in forte crescita: dall’ordine delle città più grandi del nord e della costa, alla confusione dei villaggi subsahariani e di montagna, dal vociare frenetico dei mercati, delle medine e delle kasbah al silenzio rassicurante delle immense vastità desertiche. Un’esperienza che non può essere riassunta in questo pur lungo racconto, un’avventura che andrebbe vissuta in prima persona per capire e che consiglio di fare con un’unica raccomandazione: partire con animo sereno e tanto spirito di adattamento. Solo così potrete vivere appieno una tale esperienza.
| |
|